Oltre il circo mediatico, vi spiego perchè Bossetti ha ucciso Yara Gambirasio.

“Venghino, signori, venghino… è arrivato il circo!”.

Eccoli, son giunti in Paese musici, saltimbanchi e cantastorie.  No, non è l’inizio di un film di Totò o l’invito agli spettacoli del circense americano Barnum. Semplicemente, l’ennesimo numero dei “Bossettiani in tour”. Tra illazioni, minacce e numeri degni di nota persino per una come Moira Orfei, gli haters hanno colpito ancora. E hanno colpito violando il mio profilo social e la redazione, sostenendo fantasiose teorie complottiste, ricostruzioni genetiche bizzarre e professandosi cultori di un diritto appreso tra un’udienza e l’altra del Tribunale Forum.

Ogni volta che si prova a ricordare la piccola Yara, i suoi sogni nel cassetto, la ginnastica ritmica e le modalità con le quali è stata strappata alla vita, schiere di commentatori da tastiera animano spietatamente il Bossetti Party.

Ma poiché la vita reale non è un circo, vi spiego perché sulla colpevolezza di Massimo Giuseppe Bossetti non esiste ragionevole dubbio.

Atto I, il DNA. Di fronte al faro dell’indagine, alla prova diretta e all’ inconfutabile firma del Bossetti sugli slip di Yara, la difesa, affiancata da una sfilza di ultras innocentisti (quasi come se si stesse assistendo ad una partita di calcio e non ad un processo) ha urlato allo scandalo, sostenendo la creazione in laboratorio di un DNA artificioso. Insomma, di un codice genetico sintetico malauguratamente appartenente al Sig. Bossetti. Non ad un pescatore siciliano o a un pastore sardo ma ad un muratore della bassa bergamasca.

Giusto per conoscenza, due pillole di genetica. A seguito di un’indagine faticosa, è stato isolato il DNA di Ignoto 1, ricondotto dopo innumerevoli campionamenti proprio a Bossetti. Il DNA si classifica in nucleare e mitocondriale. Il primo rappresenta il marchio di fabbrica di ciascuno di noi, contenendo i geni di entrambi i genitori, mentre il secondo indica esclusivamente la linea materna. E, tanto per dire, in genetica forense non si indaga mai il DNA mitocondriale in quanto, trasmettendosi solo da madre in figlio, non può reputarsi identificativo di un soggetto. Dunque, combaciando il nucleare isolato sugli slip con quello dell’assassino, non pare un atto di fede ma una certezza affermare che Yara è stata portata in quel campo dal Bossetti. Il DNA, anche se per alcuni può risultare difficile crederlo, non vola. Il resto sono favole.

Ma veniamo a loro, alle donne di casa Bossetti. La prima, Arzuffi Ester, nel ribadire di non aver avuto nemmeno una “sveltina” con l’autista di Gorno, ci ripensa e accusa il ginecologo di averla inseminata a sua insaputa. E lo fa davanti alle telecamere dichiarando che si, effettivamente, all’epoca gli era stato poggiato qualcosa di freddo nell’area genitale: «Diamo uno spunto per aiutare gli spermatozoi di suo marito». Inutile dirlo, la signora Arzuffi si è beccata una sonora querela dalla vedova e dalle figlie del medico ormai defunto. Insomma, l’adultera della Bergamasca – capace di mettere al mondo tre figli che di Bossetti hanno solo il cognome – ha cercato di mettere una pezza. Forse è un complotto anche che il figlio si chiami Massimo Giuseppe Bossetti ed il padre Giuseppe Guerinoni. Chissà, però la mela di solito non cade lontana dall’albero.

Poi c’è Laura, sorella gemella di Massimo. Abbiamo capito che la sincerità non è dote di famiglia, ma la donna, tra un’ospitata trash e l’altra anche, posseduta alla Vanna Marchi, ha per ben quattro volte denunciato all’autorità giudiziaria di essere stata percossa. Il motivo? Aver assunto le difese del fratello. Ma a pinocchio cresce il naso, e anche in questo caso i racconti della prorompente bionda si sono rivelati fuffa.

Non mi è ancora ben chiaro come la morte di Yara abbia portato centinaia di persone ad intraprendere una crociata per sostenere l’innocenza di Bossetti. File di soggetti che urlano alla cospirazione, che si riuniscono in strada e nei cortei preoccupati per le sorti del povero Massimo.

A coronamento di questo circo mediatico, che forse poteva esser meglio gestito con strategie processuali di altro calibro, c’è anche la questione del furgone bianco. Perché gli ultras Bossettiani, oltre a confutare il DNA, negano che l’autocarro visibile nei fotogrammi della Procura sia del Bossetti. Ma in aula i giudici smontano e distruggono la consulenza della difesa. In Corte d’Assise, infatti, si spiega che Ezio Denti non è che c’abbia capito un granché (cfr. pagg. 327 ss Sentenza di Appello). Il criminologo infatti, tra un “leggermente un po’ sopra” e un “leggermente un po’ indietro” – nell’effettuare la misurazione delle ruote anteriori – pasticcia e cerchia una ruota e qualcos’altro di simile: il cartello “orario ricevimento merci”.  Misurazioni opinabili, nient’affatto scientifiche e sicuramente inadatte a confutare quanto sostenuto dall’accusa.

 Ad inchiodare il muratore di Mapello anche le celle telefoniche. Il Sig. Bossetti ci prova ad eludere il sistema, e lo fa spegnendo il telefono dalle ore 17.45 del 26 novembre fino alle 7.34 del 27 novembre 2010. Ma l’ultima cella agganciata è quella di Via Natta, che certifica la sua presenza in zona al momento della sparizione di Yara.

Ma non è solo questo. Il problema non sono solo gli esaltati pro-Bossetti ma Bossetti stesso. Dopo tutto il fumo che il suo pool difensivo ha cercato di buttare negli occhi per scacciare l’ombra delle ricerche pedopornografiche – ragazzine tredicenni, rosse e vergini –, in carcere il muratore scrive ben 40 lettere a una detenuta avvistata nel cortile, confidandole proprie fantasie sullo stato della zona genitale. Le lettere, inutile dirlo, sono diventate di pubblico dominio.

Ma se pensate che sia tutto, vi sbagliate.

«La nostra quota è sempre sui 25, 25.000 euro a Matrix. Mi conoscono in tutta Italia eh. Il mio è il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste».

No, non è uno scherzo. Queste sono le frasi che Massimo Bossetti ha pronunciato alla moglie Marita nel corso di un colloquio in carcere datato novembre 2014. Bossetti non è certo apparso come un uomo disperato ed impossibilitato nel far valere la propria innocenza, ma piuttosto come un avido e disumano speculatore.

Tirando le somme, in punto di civiltà (non solo giuridica) forse tutta questa ira contro le istituzioni, il sistema giudiziario e chi fa informazione, dovrebbe placarsi e arrendersi all’evidenza. All’evidenza che qualcuno è stato privato dei piaceri, degli affetti e di tutto ciò che di bello e meraviglioso la vita può offrire. Ma quel qualcuno non è Massimo Bossetti ma Yara Gambirasio.