Ceste / Buoninconti

La condanna di Michele Buoninconti per l’omicidio di Elena Ceste è davvero al di là di ogni ragionevole dubbio?
Capita più o meno a tutti gli “appassionati” di crimine di domandarsi come trascorrono i loro tempo in carcere i condannati al “fine pena mai”. La cronaca giudiziaria degli ultimi anni mostra in verità le diverse attitudini dei detenuti anche nei confronti dei media. C’è chi proprio non riesce a mettersi da parte nonostante abbia su di sé la spada di Damocle di un ergastolo (scrivendo a direttori e giornali di turno) e c’è chi, invece, ha scelto la strada del “low profile” pur continuando a professare la propria innocenza.


Oggi voglio parlarvi di quest’ultima categoria e portarvi nella cella di Michele Buoninconti. Condannato in rito abbreviato a trent’anni per aver ucciso la moglie Elena Ceste, che fine ha fatto il pompiere di Costigliole d’Asti?
Privato della potestà genitoriale dopo la condanna, oggi Buoninconti si trova nel carcere di Alghero dove studia per conseguire il titolo di dottore in economia e commercio.
Ma torniamo a noi. Ormai lo sapete quando scrivo di solito non ho peli sulla lingua e non mi fermo neppure di fronte alle intimidazioni. Questa volta ho deciso, come già era successo con la strage di Erba, di non fermarmi neanche di fronte al giudicato. Già, perché nonostante siano trascorsi tre gradi di giudizio, a me la dinamica omicidiaria ricostruita proprio non convince. Partirei proprio dallo stesso Michele Buoninconti. Lo si è voluto dipingere come “ipertrofico” nell’ambito familiare, per riprendere le parole del medico di famiglia, tal dott. Gozzellino, un soggetto che trasmetteva “quel suo chiaro controllo che aveva verso la moglie”. Bene, a me pare, che la signora Ceste tanto remissiva nella relazione non era. E questo è agevolmente riscontrabile anche nelle testimonianze degli amanti con le quali la donna spendeva il suo tempo, forse per fuggire a quella vita di campagna che tanto le stava stretta.

Trentasette anni, quattro figli, di mestiere casalinga, sempre dedita alla cura di prole e galline. Probabilmente andava anche capita. Però di lì a sostenere che era succube del marito mi pare un po’ azzardato. Quale donna succube di un compagno o di un marito intrattiene relazioni extraconiugali? Al massimo le subisce in silenzio le scappatelle. Sicuramente, e questo emerge anche dai racconti delle persone sentite, Elena viveva da mesi un profondo turbamento emotivo come conseguenza delle sue condotte non proprio osservanti le promesse matrimoniali. In fondo, e lo sappiamo bene, di fronte al tribunale della coscienza non c’è peggior giudice di se stessi.

Chiaramente, e voglio sottolinearlo, tali angosce non sono deduzioni “home-made” ma è quanto cristallizzato nei verbali delle persone sentite nonché, signori miei, nei messaggi inviati dalla donna ai suoi amanti. Amanti scelti non casualmente dalla povera Elena. Già perché i soggetti con i quali aveva avviato relazioni amorose, rispettivamente Antonio Ricchiuto, Gian Domenico Altamura e Damiano Silipo, erano stati accuratamente selezionati per evitare che le “liaisons dangereuses” venissero allo scoperto. I primi due abitavano lontano mentre il Silipo – sposato anch’esso con prole – non avrebbe avuto il benché minimo interesse a sbandierare la sua infedeltà. Niente lasciato al caso insomma. Ciò nonostante, ed è storia di tutti i tempi, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Elena era infatti profondamente pervasa da ansia e angoscia dal momento che il “popolone” era ormai a conoscenza dei suoi comportamenti di adultera memoria. Le telecamere nei pressi di un centro commerciale l’avevano infatti ripresa mentre si era trasgressivamente appartata con l’Altamura. E che la Ceste era ossessionata da questo episodio ha trovato conferma anche nelle parole del parroco don Zappino che, sentito circa due mesi dopo la sua scomparsa, ne descriveva il tormento per essere “sulla bocca di tutti”.

Insomma, l’essere la Francesca – anziché da Rimini – di Costigliole d’Asti, non le faceva dormire sogni tranquilli. E questo non lo si evince solo dai racconti del Buoninconti ma è facilmente riscontrabile anche nel messaggio – agli atti – inviato ad Altamura qualche mese prima della sua tragica fine “hai creato in me una violenza psicologica che porta al suicidio ti definivi rimbambito per essere gentile io provo solo pietà di fronte al male ho la pazienza che mi rende forte e i miei figli che mi danno la vita”.


Ma perché parlare dello stato emotivo della Ceste? Ve lo spiego subito.


C’è un fatto curioso che fa sorgere qualche perplessità circa la condanna del Buoninconti al di là di ogni ragionevole dubbio. Sapete su quale punto concordano i consulenti di accusa e difesa? Sull’impossibilità di stabilire la causa della morte di Elena Ceste a causa delle condizioni in cui si trovava il cadavere al momento del ritrovamento (avvenuto circa nove mesi dopo la scomparsa della donna). Ma questo dato è comunque sufficiente per l’accusa a provare l’omicidio. Ma il 533 cpp non stabilisce che la condanna dell’imputato debba essere affermata al di là di ogni ragionevole dubbio? Non abbiamo arma del delitto, non abbiamo causa della morte. Abbiamo però uno stato confusionale, a tratti delirante, di una madre che pagava sulla propria pelle la legge della coscienza. Preoccupata che i comportamenti da donna di casa fossero surclassati dall’emergere della sua doppia vita, paventava a familiari e conoscenti il terrore più grande che una madre possa avere: essere vista dai figli come un “mostro”. Forse Elena quella mattina, denudatasi dei propri abiti, in preda ad un momento di crisi, non può essersi volontariamente allontanata? Gli stessi figli, che ad oggi non vogliono più vedere il padre, raccontano di essere stati accompagnati a scuola proprio dal Buoninconti perché la madre non si sentiva bene.


Ricapitolando. I medici legali dell’accusa precisano che il cadavere, trovato sulle rive del fiume Rio Mersa, non presentava fratture ossee evidenti e quindi tali da stabilire con esattezza la causa della morte. Però, pur senza riscontri scientifici, attribuiscono quest’ultima all’azione omicidiaria del Buoninconti. Perché non può essere diversamente. Perché anche se la scienza non dà riscontro, la causa può essere rinvenuta nell’asfissia non potendo, e cito testualmente, “essere sostenuta ogni altra ipotesi alternativa”. Dunque non ci sono prove scientifiche ma tutto torna. A casa mia, però, la matematica non è un opinione. Si dice che il cadavere parli. In questo caso ci suggerisce l’impossibilità di stabilire la causa di morte. Non assideramento come sostiene la difesa ma neppure matrice asfittica come sostiene l’accusa. Non si dimentichi infatti come in questo caso non sia stato indagato l’elemento degli elementi, la prova delle prove, cioè il DNA. Come è possibile che in un omicidio, ove la causa di morte l’abbiamo persa per strada, non si tenti quantomeno di repertare eventuali profili genetici sulla scena del crimine? Ai posteri, l’ardua sentenza.


Con la stessa superficialità (o più probabilmente con la stessa forzatura) si è arrivati a concludere che il materiale ritrovato su pantaloni e collant repertati in giardino di casa è compatibile con quello delle rive del Rio Mersa. Peccato che, anche in questo caso, accusa e difesa sono stati concordi nell’affermare che l’esiguità del materiale anzidetto non consentiva risultati attendibili. Lo stesso giudice di primo grado ha precisato che tali accertamenti sono “ben lungi da rappresentare una prova dirimente”. Sorvolando sull’approssimativa analisi delle celle telefoniche, sconfessata per tempistiche orarie dalle testimonianze dei vicini, questa condanna lascia seriamente molto perplessi. Non una prova, al più un’accozzaglia di indizi mal messi.
Ognuno è libero di scegliere come vivere la propria vita. Per fortuna la morale nei tribunali non entra ma probabilmente per risolvere correttamente questo caso era opportuno scavare maggiormente nella vita di Elena Ceste, madre di quattro figli ma anche, utilizzando le parole dell’ex compagno Guido Garrone e dell’amante Antonio Ricchiuto, “sessualmente parlando, molto disinibita, le piaceva l’erotismo. Appariva molto libertina e saltellava da un rapporto ad un altro”.


Forse Elena era divenuta completamente schiava del pettegolezzo di Paese. Al punto da renderle la vita insopportabile. Al punto di preferire altra via a quella di essere sulla bocca di tutti.

“Non c’è nessun testimone così terribile, nessun accusatore così implacabile come la coscienza che abita nel cuore di ogni uomo”. Polibio