Omicidio Elena Ceste: tutto quello che non sapete.

Ci sono condanne che lasciano non pochi angoli deserti e rendono complicato silenziare i fantasmi del dubbio. Sono le storie che iniziano da una fine o, per meglio dire, da un fine pena mai. La vicenda giudiziaria che torno a raccontarvi è quella di Michele Buoninconti.

Quando ricostruisco i casi di cronaca, ormai lo sapete, mi attengo sempre agli incartamenti processuali, per fornire un quadro quanto più chiaro ed oggettivo possibile, prescindendo così da quella più vasta “assise” rappresentante dall’opinione pubblica.

Per formazione accademica, io sono prima di tutto donna di legge, e – come già ho avuto modo di anticiparvi – ritengo che Buoninconti sia tutto fuorché colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Si è voluto rappresentare il pompiere di Costigliole d’Asti come marito ipertrofico, possessivo ed autoritario nei confronti non solo della moglie ma anche dei figli. Un marito che quella mattina del 24 gennaio del 2014, avrebbe strangolato e buttato nel Rio Mersa la moglie Elena Ceste.

Sempre alla ricerca di verità e giustizia, prima di riproporre tutti i punti oscuri della vicenda, voglio dare voce a Michele Buoninconti in ordine alle recenti dichiarazioni di Franco Ceste, padre di Elena. Qualche settimana fa quest’ultimo, per il tramite di un noto settimanale, ha accusato il genero di non aver mai versato un euro per provvedere al mantenimento dei figli. Circostanza smentita dalle contabili dei bonifici bancari.  Ebbene, il pompiere di Costigliole d’Asti da quando è detenuto ha versato ai figli una somma pari a 9. 744, 58 euro. Un importo non di poco conto considerando che il Buoninconti non lavora e si trova attualmente detenuto nel carcere di Alghero. Ingiustamente peraltro. Le sentenze riguardanti le condanne di Buoninconti sono accessibili a tutti in rete e chi ha un po’ di dimestichezza col diritto si renderà subito conto che mancano i criteri che l’ordinamento penale italiano esige per condannare un imputato “al fine pena mai”.

Elena Ceste, 36 anni e quattro figli, viveva in una piccola città di provincia. Di mestiere faceva la casalinga, sempre pronta ad accudire la casa e la prole. Nessuno, tanto meno la sottoscritta, può permettersi di giudicare le modalità con cui ciascuno sceglie di condurre la propria vita. Tuttavia, di fronte ad un giudicato così pesante, non è possibile fare “selezione all’ingresso” quanto agli elementi fattuali. In fondo, quando qualcuno scompare – soprattutto in un piccolo Paese – ha immediatamente diritto ad una biografia. Quindi diamo a Cesare ciò che è di Cesare. Elena Ceste, ritrovata cadavere il 18 ottobre 2014, non era propriamente osservante i vincoli matrimoniali. Ne avevamo già parlato, la signora infatti frequentava diversi uomini che accoglieva addirittura in casa in assenza dei figli e del marito. Queste non sono chiacchiere da bar, ma trovate tutto cristallizzato nelle sentenze.

Elena Ceste, i giorni prima della sua scomparsa, era profondamente afflitta e versava in uno stato di profonda confusione e turbamento emotivo dettato dalle dicerie di Paese. Oramai le sue scappatelle erano divenute di dominio pubblico dopo che le telecamere di un centro commerciale l’avevano ripresa mentre si appartava in macchina con Gian Domenico Altamura, uno dei suoi amanti. E di questo conflitto interiore ne aveva fatto parola anche con il parroco Don Zappino, al quale aveva espresso tutte le sue preoccupazioni in ordine a ciò che si raccontava in giro. Elena non dormiva sogni tranquilli per le sue relazioni extraconiugali e, anzi, proprio a quell’Altamura, qualche mese prima della scomparsa, aveva inviato un messaggio – anch’esso agli atti – molto significativo: “hai creato in me una violenza psicologica che porta al suicidio ti definivi rimbambito per essere gentile io provo solo pietà di fronte al male ho la pazienza che mi rende forte e i miei figli che mi danno la vita”. Parlare delle condizioni psicofisiche di Elena Ceste è emblematico per spiegare il motivo per i quale la pena inflitta a Michele Buoninconti non risponda al criterio previsto dall’art. 533 del codice di procedura penale per il quale “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio”.

In tal senso, e ribadisco anche per voi che avete sposato la tesi colpevolista e state leggendo queste righe, consulenti di accusa e difesa concordano sull’impossibilità di stabilire la causa di morte della Ceste. La Corte da un lato non ci pensa due volte ad escludere – come sostenuto dalla difesa – l’assideramento ma, al contempo, nega la possibilità di affermare con certezza che si sia trattato di asfissia.

Per giustificare la sua tesi, l’Assise ricorre a mio avviso ad un sillogismo aristotelico. Di seguito un breve estratto: “I medici legali dott. Romanazzi e dott.ssa Maria Gugliuzza, pur precisando che lo stato dei resti, che non presentavano lesioni ossee evidenti, non era tale da evidenziare con certezza la causa della morte, erano tuttavia pervenuti alla conclusione di attribuirla ad asfissia non avendo concreta possibilità di essere sostenuta ogni ipotesi alternativa”. (pag. 10, sentenza Corte D’Assise d’ Appello di Torino).

Seguendo un simile ragionamento, e quindi considerando la conclusione cui sono pervenuti i giudici, potrebbe assumere pari valenza anche la seguente affermazione: “il treno soffia, Anna soffia, dunque Anna è un treno”.

O vivo in un mondo parallelo oppure non credo di essere un treno. Mi seguite?

Ancora qualche pillola di diritto penale. Nell’ordinamento giuridico italiano vige il principio de “in dubbio pro reo” in forza del quale nelle situazioni in cui non è possibile attribuire con certezza un fatto all’imputato (per esempio, in caso di insufficienza di prove), è opportuno privilegiare la soluzione più favorevole allo stesso.

Tiriamo le somme. Nel caso della Ceste, non solo non è possibile stabilire la causa di morte, ma sul corpo della donna non sono state trovate né ferite compatibili con arma da taglio né tanto meno ferite riconducibili all’esplosione di un’arma da fuoco. Questi dati, pur senza riscontro scientifico, sono ritenuti sufficienti dall’accusa per attribuire l’azione omicidiaria a Buoninconti. La causa di morte non si può stabilire però sicuramente è stato il marito a strangolarla.

Ma andiamo oltre. Carte alla mano gli amanti della donna, Antonio Ricchiuto, Damiano Silipo e il già menzionato Altamura, si intrattenevano con la signora Ceste e la situazione era ormai di dominio pubblico. Partendo dal presupposto che tutti e tre la mattina della scomparsa hanno un alibi di ferro, non può passare inosservato lo stato d’animo in cui Elena versava da mesi. Questa infatti aveva confessato le sue preoccupazioni non soltanto nel messaggio rivolto all’Altamura di cui sopra vi ho parlato, ma aveva paventato il timore di essere seguita e spiata anche a Don Zappino.

Spiega l’investigatore privato Cannella – che attualmente coordina il pool difensivo – “la sera dell’omicidio Michele aveva ritrovato Elena riversa a terra mentre si tirava in pugni in testa, preoccupata perché un uomo l’aveva fotografata vicino ad una cava ove si era appartata insieme ad un amico”. 

Nessuno può sfuggire alla legge della coscienza, a maggior ragione una madre turbata per la possibilità che i suoi quattro figli vengano a sapere delle relazioni che intrattiene con altri uomini, facendoli addirittura entrare nella loro dimora.

 C’è un’altra peculiare circostanza. I suoi vestiti la mattina della scomparsa sono stati ritrovati nel cortile di casa. A mio avviso, non è inverosimile affermare che la donna, in preda ad una profonda crisi, si sia volontariamente allontanata da casa. Gli stessi figli hanno raccontato che quella mattina erano stati accompagnati a scuola dal padre perché la madre non si sentiva bene.

 Altro aspetto fallace della vicenda giudiziaria è sicuramente la mancata indagine del DNA, che in una circostanza come questa avrebbe potuto essere dirimente. Data l’impossibilità scientifica di stabilire la causa di morte, perché non si è tentato di isolare eventuali profili genetici presenti sulla scena?

Un’indagine un po’ troppo superficiale è stata anche quella condotta sugli indumenti rinvenuti. L’esiguità del materiale non ha infatti consentito un’accurata analisi che conducesse a risultati certi. Sul punto concordano ancora accusa e difesa. Tuttavia, ai fini della condanna, i giudici scrivono “ben lungi dal rappresentare una prova dirimente”, il materiale ritrovato su pantaloni e collant repertati in giardino è compatibile con quello delle rive del Rio Mersa (luogo del ritrovamento del cadavere della Sig. Ceste).

Ci sono troppe cose che proprio non tornano.  La Falco Investigazioni e il biologo forense D’orio stanno lavorando ad un’ipotesi alternativa ma per il momento si limitano a dichiarare “di non potersi spingere verso dichiarazioni specifiche per evitare di compromettere l’esito delle indagini difensive in corso, tanto tradizionali quanto scientifiche”.

E allora provo a concludere io riassumendo le risultanze in atti. Mancano le tempistiche per un omicidio. Manca la prova del DNA. Manca la causa di morte. Da giurista non posso negarvi che nutro seri dubbi su tale condanna. Ricordate, la colpevolezza dell’imputato deve essere infatti affermata “al di là di ogni ragionevole dubbio” e ricordate altresì che, laddove residuino incertezze, vige il principio riassunto nel brocardo “in dubbio pro reo”.

 L’unica certezza oggi è che Michele sta scontando trent’anni nel carcere di Alghero e lo fa senza ricevere dai figli neppure una cartolina. Buoninconti, e anche di questo pochi sanno, prima del tragico evento, aveva ricevuto in eredità un’importante somma di denaro e l’aveva impiegata per aprire quattro conti correnti in favore dei figli versando per ciascuno 10.000 euro. Figli che hanno chiuso qualsiasi tipo di rapporto con il padre dal momento dell’arresto. Figli che però, contrariamente alle recenti dichiarazioni, hanno ricevuto bonifici bancari fino al 4 luglio 2016.